Prima di proseguire in un’analisi delle varie tipologie di carattere sociale identificate da Erich Fromm, ritengo importante discutere ulteriormente di altri concetti che, per lo psicoanalista di origine tedesca, assumono un ruolo centrale: uno di questi è quello di attività.
È un concetto che, sicuramente, nella tua vita hai già sentito molte volte. Allo stesso tempo, capita spesso che alcune parole racchiudano un significato non univoco, e che risentano invece degli influssi della società in cui quello stesso concetto viene usato. Non possiamo assumere, per certo, che quello che noi oggi intendiamo con attività, sia la stessa cosa che Fromm intendesse con tale parola. Infatti, come vedremo, ci sono alcuni punti di estrema importanza che differenziano il modo in cui tale termine viene tipicamente usato, rispetto al modo in cui Fromm lo intende.
Immagina di vedere una persona che, al mattino, è impegnata in un’attività sportiva: torna a casa, fa un veloce pranzo e si immerge poi in quale altro progetto che la tiene impegnata l’intero pomeriggio. La sera, fuori con gli amici. Questa descrizione sembra essere coerente col tipico concetto di attività: la persona in questione sembra essere, a tutti gli effetti, una persona attiva.
Prendiamo invece un’altra persona, che magari sta attraversando una fase complessa della propria vita e sta elaborando le varie emozioni che nascono da tale fase: se l’insieme di azioni messe in atto da questa persona fossero di numero inferiore, rispetto al suo tipico standard, verrebbe la tendenza a definire questa persona come meno attiva, rispetto alla prima che abbiamo definito.
Ecco che questa definizione di attività è basata su una metrica esteriore, basata sull’osservazione del comportamento esteriore della persona, senza considerare le forze motrici interiori che spingono a tali azioni. Secondo la concezione Frommiana di attività (ispirata da altri filosofi, come Spinoza), la motivazione interiore che sta dietro un particolare comportamento è di importanza cruciale per definire se si tratta di attività o di passività.
Consideriamo nuovamente la prima persona. Immaginiamo che tutti i comportamenti descritti si originino da un intimo desiderio di esprimere se stessi e di esplorare il proprio potenziale, come dono per sé e per gli altri: ecco, in questo caso, questi comportamenti sono certamente di natura attiva. Immaginiamo, invece, che tali comportamenti siano messi in atto per rifuggire uno stato interiore di angoscia, di solitudine e di disperazione; insomma, che si configurino come distrazione rispetto al mondo interno della persona in questione. A lungo termine, c’è il rischio che la persona si senti più stanca ed esausta da tali comportamenti, piuttosto che arricchita: insomma, la persona esegue questi comportamenti non in modo attivo, ma passivo: sono richiesti da altri stimoli (legati all’evitare il proprio mondo interiore), che la persona segue senza metterli pienamente in discussione.
Consideriamo invece la seconda persona menzionata sopra: se tale persona affronta il momento difficile della propria vita in modo aperto verso il suo mondo interiore, per quanto l’insieme di comportamenti sia magari ridotto, la persona agisce comunque in modo attivo, perché le sue energie e il suo divenire sono orientate verso l’elaborare il proprio mondo interiore e il corroborare la propria personalità tramite questo atto.
Ecco che, nel chiederci se quello che facciamo sia una espressione sincera della nostra personalità, o piuttosto plasmato da altre forze che limitano il nostro sviluppo, dobbiamo considerare non tanto il comportamento in sé, ma il perché che lo governa.
Nel prossimo articolo vedremo la stretta correlazione tra il concetto di attività e un altro concetto di centrale importanza nell’analisi di Fromm: quello di alienazione.
