Nell’articolo precedente abbiamo visto insieme come il contatto con l’inconscio, e l’ampia gamma di possibilità che vi risiedono, sia uno dei pilastri dell’incontro diretto.
Quali vie possono essere utili a corroborare tale contatto e a coltivarlo nella vita di tutti i giorni? La vita di Fromm, e le sue pratiche quotidiane, delineano una via importante: quella della meditazione.
A partire dagli anni ’40 del Novecento, Fromm apprese molto sulla tranquillità interiore e sulla consapevolezza del corpo e dei sensi grazie a Charlotte Selver; successivamente, a partire dagli anni ’50, Fromm trovò nuovi, importanti spunti in Daisetz T. Suzuki, maestro giapponese di Buddhismo Zen.
Tra le letture che Fromm consigliò al giovane Rainer Funk vi fu “The Hearth of Buddhist Meditation” (tradotto liberamente in italiano, “il cuore della meditazione buddhista), scritto da Nyanaponika Mahathera: questo libro svolse un ruolo cruciale nella pratica meditativa di Fromm, permettendogli di avvicinarsi ad alcuni aspetti grazie a spiegazioni molto chiare.
Gli incontri (di persona e tramite i loro scritti) con questi maestri rafforzò in Fromm una consapevolezza: il percorso meditativo e il pecorso psicoanalitico, per quanto in superficie si avvalgano di notazioni e di modelli differenti, si prefiggono nel profondo uno stesso obiettivo. Quale? La possibilità di percepire un’unità, sia con gli eventi del mondo circostante, sia con la propria realtà interiore, in un modo che permetta di trascendere i confini del proprio Ego.
Interessante notare come pratiche meditative praticate da Fromm, non molto diffuse nel mondo occidentale nella società a lui contemporanea, abbiano poi trovato un importante riscontro terapeutico nei decenni successivi e fino ai giorni nostri, passando dagli studi pionieristici sul programma MBSR (Mindfulness-Based Stress Reduction) di Jon Kabat-Zinn alla crescita sostanziale di pubblicazioni sul ruolo della mindfulness sul benessere psico-fisico.
Infatti, la definizione stessa di mindfulness (“attenzione posta consapevolmente al momento presente, senza giudizio”) ci permette di capire perché tale pratica possa essere di importanza fondamentale nell’incontro diretto.
Se sono impegnato a destreggiarmi tra le impalcature costruite dal conscio, saltando di razionalizzazione in razionalizzazione, inibisco un contatto con le sementi inconsce e con le loro flebili voci: è nella quiete, nell’ascolto, e nell’assenza di giudizio verso la propria esperienza che si riesce a camminare, calmi, tra i paesaggi della propria mente e a comprendere come accoglierli, cullarli, eventualmente trasformarli (se questo porta ad una espressione più piena ed amorevole di sé). Insomma, la meditazione è uno strumento che può aiutare a vivere le proprie esperienze in modo pieno, senza la necessità di reagire a quello che proviamo: se un’emozione ci induce direttamente all’azione, non siamo attivi, ma passivi; piuttosto, un piena accoglienza di un’esperienza ci fornisce la possibilità di agire, ponendoci in questo modo in un ruolo attivo e dandoci la possibilità di modellare l’esperienza emotiva, che è stata accolta, in una forma ed in una sostanza che ci siano di arricchimento.
Inutile evidenziare quanto questa breve digressione sul tema della meditazione sia per sua natura limitata, in quanto la pratica meditativa, i suoi stadi, e le sue molteplici sfaccettature hanno occupato menti e corpi di maestri eccellenti nel corso di secoli e millenni. Eppure, è interessante notare come, secondo Fromm, questa grande saggezza ci aiuti ad avvicinarci a noi stessi e come la comunità scientifica abbia oggi integrato pratiche di mindfulness in numerosi protocolli terapeutici.
Nei prossimi articoli, analizzeremo maggiormente in dettaglio un’altra pratica che, per Fromm, riveste un ruolo fondamentale: quella dell’arte di amare.
