Negli scorsi articoli abbiamo parlato di due preziose vie che consentono un’espressione produttiva di se stessi: quella della meditazione e quella della ricerca di contatto con il proprio inconscio, che contiene i semi delle nostre potenzialità.
Oggi iniziamo a parlare di un’altra via maestra: quella dell’amore, o meglio, quella dell’arte di amare. Proprio così: secondo lo psicoanalista di origine tedesca quella di amare è proprio un’arte (come conferma il titolo del suo libro uscito nel 1956), e il collocare l’amore nel campo dell’arte pone già dei grandi presupposti su cosa l’amore sia e su come possa essere coltivato.
Nella parte iniziale del libro, Fromm analizza come l’amore fosse spesso misinterpretato nella società occidentale a lui contemporanea (e, mi viene da dire, pure in quella attuale). Spesso si confonde l’amore con l’innamoramento, con il confluire delle attenzioni e della capacità affettiva verso un determinato soggetto, che diventa una sorta di centro. L’amore come qualcosa che viene e che va, appena lo slancio passionale non riesce a sostenere nel tempo la propria energia interna e si trasforma in altro (che, se ben colto, può essere altrettanto bello e ben più prezioso). L’amore come un qualcosa che dipende dal soggetto: io amo ciò che inspira e suscita in me attenzione, e tralascio il resto. Insomma, l’amore come un Cupido capriccioso, che ci colpisce con le sue frecce in un modo che non dipende dalla nostra volontà conscia e le cui frecce stesse agiscono su di noi per un certo tempo.
Senza nulla togliere al ruolo delle passioni amorose nella vita umana (l’industria cinematografica ci fa i miliardi, proprio perché tali passioni risuonano in noi), e senza trascurare le particolari affinità che ci legano a determinate persone (di esistenza oggettiva e comprovata dall’esperienza personale), quello che Fromm vuole sottolineare è la pertinenza dell’amore nel campo dell’attività umana, e non della passività. Se amo solo ciò di cui mi innamoro, sono trascinato dalle passioni e non fornisco all’amore quella connotazione attiva che può avere.
Quali sono le connotazioni attive dell’amore? Certo, si può partire da determinati individui, per i quali proviamo un particolare affetto, per poi estendere tale affetto e tale vicinanza all’intero genere umano (con le sue forze e debolezze) e alla natura che ci circonda. Insomma, le specifiche forme dell’amore, di cui facciamo esperienza nella nostra vita, possono diventare un ponte che ci permette lo sviluppo dell’amore fraterno, che è la meta ultima dell’amore e che ci permette di sentirci vicini agli altri esseri umani proprio perché ne condividiamo l’umanità (sebbene ognuno la esprima a proprio modo e in vie che spesso generano conflitti).
Ecco che l’arte di amare richiede pazienza, interesse, tempo, desiderio di spenderci energie per poi guadagnarne di nuove; richiede la nostra compartecipazione, richiede il vedere oltre le apparenze (è antipatia o una ferita non elaborata?), e richiede l’entrare in pieno contatto con la nostra umanità, per riconoscerla poi in altri.
