La vetrina li divideva dalla strada. Nessun rombo di macchine, cigolii di vecchi motorini o starnazzate di biciclette. Sembrava che il mondo si fosse fermato.
All’interno del bar, l’unico rumore che si sentiva era quello di una birra che veniva stappata, seguito dal rantolio della sedia su cui Gianni si sedeva; uomo sulla cinquantina, che portava i segni di numerose abbuffate. Insieme a lui, Umberto: fedele amico, gracile ma con occhi più verdi della speranza.
Tutto era chiuso. Compreso quel magico locale che, fino a poco tempo fa, ospitava andirivieni di espressi, brioches al cioccolato, chiamate furtive, lacrime e anche qualche scoreggia. Ora, la necessità, era rimanere a casa. Eppure, per Gianni il bar era casa: passava più ore lì che nel suo letto. Umberto, inquilino del piano superiore, era venuto a far visita all’amico.
«Tempi matti, vecchio mio», ruttò Gianni insieme alle bollicine che poco prima aveva ingerito. «È da anni che, per otto ore al giorno, vedo questa strada. Ho visto più macchine che tazzine di caffè, e ora non vedo più né le une né le altre. Quando torneremo alla normalità?».
Umberto scrutava un punto fisso in lontananza, mentre con la mano sinistra eseguiva movimenti sussultori in zona pelvica (si stava grattando lo scroto). «Chiami normalità quella di prima?», risponde placido.
«Beh Umberto, è quello a cui eravamo abituati».
«E da quando ciò a cui siamo abituati corrisponde a ciò che è normale, o che, per lo meno, dovrebbe esserlo?».
«Inizi ancora con i tuoi discorsi filosofici del cazzo? Di solito lo fai dopo qualche bicchierino di liquore, adesso sei a stomaco vuoto!».
Umberto non badò alle parole dell’amico, perso com’era nei suoi pensieri. Quanti passi ha fatto l’Homo Sapiens Sapiens! Così viene definito quel curioso animale che non solo sa, ma che sa di sapere.
«Sai Gianni, siamo definiti come appartenenti alla specie Homo Sapiens Sapiens. Eppure, non dovremmo chiamarci Homo Insapiens Insapiens?»
«Cosa vai farneticando?»
«Siamo così assuefatti da quello che pensiamo di sapere, che non ci accorgiamo di tutto quello che non sappiamo. Tu, per esempio, ogni mattina ti svegli e vieni nel bar. Elargisci caffeina per modiche cifre e rincoglionisci qualche avventore con supercazzole sull’inizio della stagione sciistica. E non sai, per esempio, com’è andata la giornata a quel bambino in Nepal che si sentiva solo ed affamato.»
«Come potrei saperlo?!»
«Era un esempio, vecchia spugna. Eppure, ti rendi conto di quanto siamo ignoranti e di quanto invece presumiamo di sapere?»
«Non ti seguo».
«Non devi seguirmi: neanche io so dove sto andando. Mi trovo a metà strada tra la contemplazione delle meraviglie che l’uomo ha creato e l’orrore dell’abisso che, molte di queste creazioni, hanno comportato.»
«Umberto, adesso non è il momento di filosofeggiare. Ci sono persone là fuori che muoiono, che combattono contro un nemico invisibile ai nostri occhi. Cosa se ne fanno loro delle tue speculazioni sull’essere umano?»
«Gianni, quello che sta accadendo è tragico. Ed è abbracciando questa tragedia che possiamo, tutti insieme, rispondere alla domanda “Chi siamo?”. Sai, in tempi di “normalità”, come l’hai definita tu prima, emergono risposte banali. Non facciamo neanche lo sforzo di sollevare il velo dell’abitudine, per vedere più in fondo, per scorgere chi possiamo essere. È nei momenti di buio e di tragedia che il tratto della nostra penna si fa più forte, e possiamo sovrascrivere il borioso tratto della quotidianità.»
«Umberto…»
«Che nuova storia possiamo, insieme, scrivere? Quali valori umani potranno guidare il nostro presente e futuro? Come, in un mondo sempre più impersonale, possiamo definire noi stessi? È in questo periodo di buio che siamo chiamati a ritrovare la nostra luce. È abbracciando la nostra ignoranza che, forse, troveremo qualche risposta.»
In lontananza si sentì suonare un clacson e, nel frattempo, una margherita sbocciava sul vialetto di fronte al bar.