Perché Vegan? Un punto di vista ambientale

Ciao a tutti! Ieri vi ho esposto una serie di motivi etici che hanno contribuito a condurmi verso una dieta inizialmente vegetariana, poi vegana! Oggi analizzeremo un’altra serie di tematiche, non più legate al solo aspetto etico ma anche all’aspetto ambientale! In particolar modo, analizzeremo in che modo l’allevamento moderno stia contribuendo sempre maggiormente al progredire di una serie di circostanze poco favorevoli, per la nostra vita e per la vita del nostro pianeta! Le informazioni riportate sono prese dallo stesso libro citato ieri, ossia “La rivoluzione della forchetta vegan”, a cura di Gene Stone (da pagina 47 a pagina 52).

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Come prima tematica, affrontiamo quella del riscaldamento globale. Prima di entrare in merito dei contributi degli allevamenti, mi permetto di fare una parentesi: vi sono molti contrasti su questo tema, in quanto a livello di ricerca si sta cercando di capire sempre maggiormente quale sia l’impronta umana su tale fenomeno di scala mondiale. Vi è ancora una buona quantità di confusione: se sono confusi i ricercatori, immaginate quanto possa esserlo io in tema, che sono studente. Mi limiterò dunque a riportare le poche conoscenze personali che ho e gli elementi letti sul libro. Da cosa è causato il fenomeno noto come “effetto serra”? Come sappiamo, ogni giorno (per nostra fortuna) la Terra viene permeata da una grande quantità di luce solare. Lo spettro solare è caratterizzato da un continuum di lunghezze d’onda (e di frequenza), che distinguono tra loro i diversi tipi di onde che giungono a noi (raggi gamma, raggi x, ultravioletto, visibile, infrarosso, microonde, onde radio e altre ancora). Ogni molecola presente nell’atmosfera, in conseguenza alla quantizzazione dell’energia a livello atomico, ai derivanti e possibili salti elettronici nella molecola stessa e alle diverse possibilità di movimento e di modifica dei legami chimici in essa presenti, è in grado di assorbire determinate frequenze di spettro elettromagnetico. Ad esempio l’ozono, fortunatamente, assorbe una serie di frequenze ultraviolette che sarebbero altrimenti per noi dannose. Una volta che la luce ha raggiunto la superficie terrestre, viene in parte riflessa da essa, con una frequenza minore. Tale frequenza minore risulta essere in parte compatibile con lo spettro di assorbimento di una serie di gas atmosferici: di conseguenza tale parte dello spettro luminoso, piuttosto che essere dispersa, viene nuovamente assorbita dall’atmosfera, con conseguenti impatti e surriscaldamenti climatici. I gas serra sono sempre esistiti, e in gran parte derivano da fonti naturali. Nell’epoca moderna possiamo però notare un notevole incremento di un particolare gas serra, l’anidride carbonica, principalmente derivante da processi di combustione e respirazione cellulare. Che impatto ha l’allevamento su tutto questo? Le Nazioni Unite ci informano del fatto che l’allevamento di bestiame a scopi alimentari, secondo alcune ricerche, abbia un impatto maggiore della totalità di veicoli che emettono biossido di carbonio (ossia l’anidride carbonica). Altre ricerche scientifiche hanno condotto alle seguenti analisi. Il settore zootecnico è responsabile di:

  • Quasi il 10% delle emissioni di anidride carbonica
  • Il 37% delle emissioni di metano (seppur presente in ambiente in quantità minori, è un gas serra circa 23 volte più potente dell’anidride carbonica)
  • Il 65% delle emissioni di protossido di azoto (296 volte più potente della CO2 come gas serra)
  • Il 64% delle emissioni di ammoniaca causate dall’uomo (importante concausa delle piogge acide)

Oltre all’analisi dell’effetto serra, è importante notare un’altra problematica ambientale: la deforestazione. Nell’anno 2011 l’industria zootecnica ha utilizzato il 30% dell’intera superficie terrestre. Il 70% delle aree deforestate in Amazzonia viene utilizzato come pascolo: in ogni minuto, in Amazzonia, viene distrutta una parte di foresta la cui ampiezza è pari a quella di 7 campi da football.

L’industria zootecnica risulta inoltre essere caratterizzata da una serie di inefficienze. Considerata una determinata superficie, allevare gli animali per macellarli risulta essere molto meno conveniente rispetto alla coltivazione delle medesime aree per il proprio fabbisogno, con alimenti di origine vegetale. Ad esempio, mezzo chilo di carne trattata industrialmente necessita di 9500 litri di acqua: la stessa massa di soia può essere prodotta con 950 litri, la stessa massa di frumento con 95 litri. La quantità di acqua richiesta per coltivare foraggi è maggiore di 2-5 volte rispetto alla quantità necessaria alla coltivazione di prodotti agricoli di base. Spesso tali prodotti agricoli sono necessari con ritmi molto alti, e per questo motivo vengono utilizzati una serie di pesticidi e fertilizzanti, i quali promuovono l’inquinamento di falde acquifere, fiumi e oceani. Oltre alla tematica relativa al poco produttivo utilizzo delle risorse idriche, è importante notare anche l’impatto sugli ecosistemi. Il sempre più richiesto pesce di mare ha condotto ad uno sfruttamento, sovra sfruttamento o esaurimento totale del 76% delle riserve ittiche. I pesci non sono i soli a subire questo destino: a livello globale vi è una diminuzione di specie animali molto alta, in conseguenza a distruzione degli habitat naturali, depauperamento ittico, caccia, inquinamento e desertificazione.

Vorrei infine riportare una parte tratta dal libro stesso, che mette in luce come questa bassa efficienza incida anche sulla fame nel mondo.

In base a una ricerca condotta nel 2006 dall’Università di Chicago, la dieta americana media deriva il 47% delle sue calorie totali dai prodotti animali. Questo corrisponde a “un’impronta”, ossia un impatto annuale di 2,52 tonnellate di anidride carbonica pro capite. Le persone che hanno una predilezione per le carni rosse e ad esempio traggono il 50% del proprio apporto calorico dalle bistecche e simili lasciano un’impronta media di CO2 pari a 3,57 t. Se un cittadino americano medio carnivoro limitasse il suo apporto di prodotti animali al 25% delle calorie totali, la sua impronta ne risulterebbe ridotta di circa 1 t. Adottando una dieta a base esclusivamente vegetale si avrebbe una riduzione di emissioni di anidride carbonica fino a 2 tonnellate. Di fatto, se ogni americano riducesse il consumo di polli in misura di un pasto settimanale, il risparmio di anidride carbonica sarebbe equivalente alla rimozione di 500.000 automobili dalla strada.

Se l’intera popolazione statunitense dovesse adottare una dieta a base vegetale per un solo giorno, la nazione conserverebbe le seguenti risorse (dati compilati in base ai rapporti scientifici di Noam Mohr, fisico del New York University Polytechnic Institute):

385 miliardi di litri di acqua potabile, sufficienti a coprire il fabbisogno di ogni componente della totalità delle famiglie del New England per quattro mesi;

750 milioni di kg di prodotti agricoli, sufficienti a nutrire la popolazione del New Mexico per più di un anno;

265 milioni di l di benzina, sufficienti a fare il pieno a tutte le auto del Canada e del Messico;

33 t di antibiotici.

Nel frattempo si potrebbero evitare i seguenti danni ambientali:

1.2 milioni di t di emissioni di anidride carbonica;

3 milioni di t di erosione del suolo;

4.5 milioni di tonnellate di rifiuti animali;

7 tonnellate di emissioni di ammoniaca.

Su scala mondiale, gli animali di allevamento consumano 756 milioni di tonnellate di cereali. Secondo il bioetico di Princeton Peter Singer, una quantità equivalente sarebbe sufficiente a fornire a 1.4 miliardi di persone che vivono nell’indigenza circa 1.5 kg di grano al giorno, una quantità doppia rispetto a quella necessaria alla sopravvivenza. Inoltre, questa cifra non comprende i 225 milioni di t di soia prodotti ogni anno, che viene quasi interamente consumata dagli animali.

«Non è vero che il mondo è a corto di cibo», scrive Singer nel suo libro Salvare una vita si può. «Il problema è che noi cittadini dei Paesi sviluppati abbiamo trovato il modo di consumare una quantità di alimenti quattro o cinque volte superiore a quella che consumeremmo se mangiassimo direttamente quanto coltiviamo».

Dal mio punto di vista, non so dire nulla in merito all’attendibilità delle ricerche riportate. Può essere che tendano ad esagerare alcuni aspetti: spesso la statistica può essere usata per creare correlazioni fantasiose. Sta di fatto che tali problemi esistono, ed una dieta vegana può contribuire a diminuirne l’impatto ambientale. Da domani, inizieremo ad analizzare l’impatto di una dieta vegana sulla salute! Se siete interessati a conoscere come un’alimentazione vegetale incida sulla salute umana, preparatevi, perché metteremo in discussione una serie di capisaldi dell’alimentazione comunemente accettati!

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