Timothy Leary disse una cosa assai saggia:
Le parole sono il surgelato della realtà.
Creiamo la nostra realtà mediante le parole che scegliamo per descrivere quello che viviamo tutti i giorni. Le esperienze che possono capitare sono infinite: sono immensamente più numerose delle parole che possiamo utilizzare per descriverle, le quali sono a loro volta tipicamente molte di più delle parole che effettivamente usiamo nella nostra vita.
I vocaboli e le strutture sintattiche ci permettono di comunicare e di raccontare a noi stessi o ad altre persone quello che è accaduto. Ci portano ad un livello diverso rispetto a quello della percezione sensoriale: ci consentono di elaborare mentalmente quello che i nostri sensi recepiscono e di attribuire un significato a quello che accade. Per questo le parole sono così importanti: ci permettono di costruire una mappa linguistica che ci guida nella quotidianità. Dalla ricchezza di questa mappa si manifestano le azioni che compiamo nella nostra vita.
Oggi voglio condividere con te alcuni spunti sul verbo probabilmente più utilizzato. Mi riferisco al verbo ESSERE. Assai frequentemente, quando utilizziamo questo verbo, surgeliamo la realtà e la percepiamo in un modo statico. Alfred Korzybski, papà della semantica generale, distingue due diversi utilizzi del verbo essere che possono limitare notevolmente il modo in cui navighiamo nel nostro mondo.
È identificativo. In un mondo di continui cambiamenti nulla può essere esattamente identico a qualcos’altro, e neppure a se stesso in un diverso istante temporale. La tastiera con la quale sto scrivendo ora questo articolo ora non è la stessa tastiera con la quale ho iniziato a scriverlo. Sebbene la sua apparenza macroscopica sia sostanzialmente la medesima di qualche minuto fa, a livello microscopico i costituenti molecolari che la compongono hanno indubbiamente mutato forma. L’aria che sto respirando ora è indubbiamente diversa da quella che ho respirato tre secondi fa. Dire che un oggetto è uguale ad un altro o che un oggetto è uguale ad una versione traslata temporalmente di se stesso non è veritiero, ma è una buona approssimazione. Nascono maggiori difficoltà quando utilizziamo il medesimo processo nella descrizione di comportamenti e valori. Se dicessi ad esempio: «Stringere la mano è segno di buona educazione» oppure «Amare è guardare negli occhi il proprio partner mentre si parla», starei compiendo delle associazioni identificative ad un livello di astrazione elevato. Avrei creato quelle che vengono denominate equivalenze complesse, che consistono nel creare un legame identificativo (x = y) tra aspetti della realtà non necessariamente collegati tra di loro. Ad esempio, non in tutte le culture stringere la mano è segno di rispetto, e non tutte le persone guardano il proprio partner negli occhi mentre parlano (sebbene lo amino immensamente). Quando questo processo viene portato al livello dell’identità delle persone, la descrizione della nostra percezione diventa più surgelata dei Sofficini Findus. Se dicessi che «Ubaldino è pigro» proietterei un concetto comportamentale al livello dell’identità di Ubaldino. È come se appiccicassi un’etichetta su di lui e lo identificassi con il concetto stesso di pigrizia. Se anche vedessi Ubaldino che si allena per la maratona di New York, tenderei probabilmente a rimanere nella mia percezione “surgelata” e a ritenerlo una persona pigra. Questo processo lo applichiamo molte volte anche con noi stessi.
- È inutile che studio, tanto sono stupido.
- Mi sono comportato in questo modo, vuol dire che sono cattivo.
- Sono così, cosa posso farci?
Ci identifichiamo con determinate caratteristiche e le proiettiamo su noi stessi. Quante volte abbiamo rinunciato al cambiamento, solamente perché pensiamo di essere in un determinato modo e di non poter intervenire a proposito? L’identificazione è uno dei grandi ostacoli al cambiamento, in quanto ci mette in condizione di confondere noi stessi con le nostre azioni, i nostri valori, i nostri ruoli e quello che pensiamo che ci caratterizzi. Chi dice di essere grasso è più difficile che riesca a dimagrire rispetto a colui che dice: «ho qualche chilo di troppo».
È dell’asserzione. Nel caso dell’è identificativo tendiamo ad effettuare una vera e propria sovrapposizione tra due diversi concetti, e finiamo per confonderli tra di loro, come se uno fosse l’altro (x = y). Nel caso dell’è dell’asserzione, usiamo invece il verbo essere per enunciare delle caratteristiche di un determinato oggetto o di una determinata persona, senza però sviluppare quel concetto di equivalenza tipico dell’identificazione. Facendo questo, non ci rendiamo però conto del fatto che le nostre parole derivano dalla nostra particolare funzione percettiva. Prendiamo come esempio la frase: «La mia macchina è di un bellissimo colore blu». In questo caso la macchina non viene identificata con il concetto di blu: piuttosto, il blu è una caratteristica della macchina e ha la sola funzione di descriverla. L’è viene quindi usato in senso assertivo, non identificativo. Siamo ad un livello di astrazione inferiore rispetto all’identificazione, ma resta il fatto che pensiamo che la macchina sia blu quando in realtà non lo è. La macchina viene percepita come blu agli occhi di quella determinata persona che la osserva. Se la macchina venisse osservata da una persona non biologicamente predisposta a vedere il colore blu, la macchina non sarebbe blu. Se la macchina fosse osservata da un altro essere vivente con un sistema oculare diverso da quello umano, la macchina ancora non sarebbe blu. Questo fenomeno di asserzione spesso ci fa dimenticare che una determinata caratteristica di una persona o di un oggetto possa essere percepita in modi diversi.
Tutte queste considerazioni fatte sul verbo essere trovano grandi applicazioni nella quotidianità, e permettono di trattare quel bisogno di approvazione che spesso caratterizza la cultura occidentale. Le persone, specialmente nella cultura occidentale, tendono a percepirsi come delle entità isolate e non interconnesse, e questo modo di vedere la realtà incoraggia l’identificazione. Ci mette in condizioni di legare in modo saldo noi stessi ai nostri valori, alle caratteristiche che reputiamo ci descrivano, alle nostre azioni. In questo modo ancoriamo noi stessi ai nostri pensieri e a quanto abbiamo fatto in passato, lasciando poco spazio al futuro e al cambiamento. Ancoriamo la percezione che abbiamo di noi stessi a quanto le altre persone ci dicono, e proprio da queste persone ricerchiamo approvazione, per cercare di uniformarci al concetto di persona «buona e brava».
Eppure, siamo molto più di quello con cui ci siamo identificati. Siamo esseri dinamici, non statici. Se oggi ci comportiamo in un determinato modo, domani possiamo comportarci in un modo diverso. Allo stesso modo, possiamo sviluppare come desideriamo i nostri valori, le nostre capacità. Tutto questo è possibile se evitiamo l’identificazione con chi pensiamo di essere ed evitiamo di identificarci con gli epiteti che le altre persone usano per parlare di noi. Se proprio dobbiamo mettere qualcosa dopo il verbo è, mettiamo meraviglia, splendore, infinite potenzialità.
Non parole statiche, e non parole che surgelano. Solo amore e crescita.
Un abbraccio,
Mattia
2 pensieri riguardo “Identità e approvazione: analisi neuro-linguistica delle forme disfunzionali della comunicazione interna e interpersonale”