Luce e ombra, felicità e tristezza

Nella filosofia Taoista l’invito principale è quello di andare oltre la dualità e cogliere l’essenziale unità del tutto.

Con le nostre parole, i nostri pregiudizi e le nostre idee tendiamo a spacchettare il mondo in una serie di elementi più semplici. Per un’analisi razionale questo ci è necessario: se non effettuassimo una suddivisione e categorizzazione, troppi sarebbero gli input per il nostro cervello.

In questo processo acquisiamo molto in termini di semplicità del modello descrittivo, ma necessariamente ci allontaniamo dalla realtà in cui viviamo. Questo spazio, tra realtà e modello, dice molto sulla qualità delle nostre esistenze. Se ben plasmato può condurci ad una ricca quotidianità, se lasciato a se stesso a volte può condurci ad una mesta lacuna.

Uno dei limiti più grandi che attualmente percepisco nel “tipico modo occidentale” di descrivere il mondo è l’apparente divario degli opposti. Luce e ombra. Saggezza e ignoranza. Bello e brutto. Buono e cattivo.

Tendiamo spesso a descrivere il mondo in termini di realtà opposte, le quali sembrano essere di natura mutuamente esclusiva. Ne parliamo così tanto che tali qualità ci sembrano reali; spesso ci sfugge il fatto che la loro stessa esistenza dipende dal concetto contrario e dal nostro peculiare modo di nominare il mondo.

Così parliamo di felicità e tristezza e facciamo di tutto per accogliere la prima e rifuggire la seconda, senza renderci pienamente conto del continuum tra queste due dimensioni del mondo intra-personale. Se c’è una cosa che ho imparato quest’anno è quanto la tristezza possa essere un’eccellente maestra, se accolta e lasciata parlare.

Ovvio, tutti vogliamo sentirci bene. La nostra fisiologia funziona meglio in tali condizioni e il nostro mix ormonale ci porta a sorridere a vedere tutto in modo più positivo. Eppure, nella rincorsa alla felicità, dobbiamo stare attenti a cogliere sul sentiero quei preziosi tasselli che tutte le altre emozioni possono donarci. Emozioni che possono essere accolte, per carpirne il messaggio e per usarlo come collante di nuove azioni e di nuovi modi d’essere.

La gioia può essere un’eccellente maestra ma può esserlo anche la disperazione, se siamo pronti a coglierne la testimonianza per piantare nuovi semi. Nuovi semi che, in prima istanza, devono affrontare il buio del sottosuolo e credere a ciò che hanno in potenza, più che in atto. Come dice Alessandro D’Avenia, «sperare non è il vizio dell’ottimista, ma il vigoroso realismo del fragile seme che accetta il buio del sottosuolo per farsi bosco».

A volte tutti noi ci sentiamo fragili semi. A volte, quando non si vede ancora qualcosa, è necessario credere e immaginarselo come se fosse già lì: è questo atto mentale che dà il via al processo creativo e che ci guida sul nostro sentiero.

È questa forza indomita, quelle del credere in un qualcosa di più, che dona al nostro sguardo la speranza di guardare più in là degli apparenti confini creati dalla nostra immaginazione.

Un abbraccio,

Mattia

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