«Umberto, è il decimo giorno che parliamo. Sono emersi molti concetti e sento bisogno di un riassunto.»
Il vecchio docente è appena entrato nel bar dell’amico, dopo l’ora di pranzo.
«Vecchia spugna, in uno dei primi incontri avevi detto che avremmo bevuto del vino insieme. Eppure, fino ad ora ho gustato solo caffé e spremuta d’arancia. Tira fuori una bottiglia!»
Gianni ride e va in cantina. Prende un vino di modesta qualità, che la forza dell’amicizia rende peró piú gustoso.
«Volevi un riassunto: eccotelo. Penso che sia bene partire con i tre paradossi. Il primo: la felicità è basata su momentanee fluttuazioni emotive derivanti dall’appagamento dei sensi. La gioia, invece, è la dolce sensazione che si prova quando si abbraccia la sofferenza e tutte le emozioni. Il secondo: si inizia a conoscere veramente gli altri quando si abbandona il desiderio di comprenderli. Il terzo: È solo lasciando andare chi pensiamo di essere che possiamo essere veramente.»
«Si, li ricordo. Eppure, non abbiamo parlato solo di questo. Abbiamo visto tanti altri concetti, come quelli di distanza, avere, essere, alienazione, focus sul risultato e focus sul processo. Mi piacerebbe capire meglio come questi concetti sono legati ai tre paradossi.»
«Va bene, Gianni. Ripercorro tutti i concetti che abbiamo visto e vedo di strutturarli in modo chiaro ed efficace.»
Umberto siede pensante, e rinizia a parlare.
«Siamo partiti dall’essere umano e dalla domanda: cosa necessita l’uomo per essere felice? Abbiamo visto che la felicità, in fondo, è transitoria: la meta a cui ambiamo è la gioia. La gioia deriva dall’abbracciare il proprio mondo emotivo, con accettazione, curiosità e desiderio di andare oltre se stessi. In questo modo possiamo donare al mondo chi siamo. L’atteggiamento di accettazione e curiosità puó essere esteso alle relazioni con le altre persone, e in questo modo ci sentiamo vicini a loro; la distanza è colmata e instauriamo rapporti in cui, invece che proiettare chi vorremmo che l’altro fosse, ci esercitiamo a vederlo per quello che è. Il nostro ruolo, quindi, diventa quello di ricondurre gli altri dolcemente a se stessi. Queste modalità relazionali, con noi stessi e con gli altri, sono basate sul paradigma dell’essere: riconosciamo la transitorietà dei fenomeni e contribuiamo alla loro fioritura e naturale evoluzione. Abbiamo, in questo modo, un focus sul processo: siamo cosí immersi in quello che facciamo che le azioni diventano un naturale proseguimento del nostro essere. Il nostro compito, dunque, diventa quello di andare oltre le idee cristallizzate che abbiamo su di noi: abbracciamo cosí le nostre possibilità. D’altro canto, la società attuale è spesso focalizzata sull’avere e sul risultato: le azioni non vengono vissute pienamente, in quanto percepite come mezzo per raggiungere uno scopo. Da tutte queste considerazioni, Gianni, emerge una domanda.»
«Quale?», chiede il barista.
«Come possiamo costruire una società in cui i bisogni materiali fondamentali siano soddisfatti per tutti, e in cui il modus operandi sia basato sull’essere? È una domanda articolata e complessa, e su cui ci focalizzeremo i prossimi giorni».
Umberto finisce in un sorso il bicchiere di vino e si alza barcollante. Prende il mazzo di carte e guarda l’amico con occhio furbo. In questo pomeriggio, ai tempi del coronavirus, le parole lasciano spazio al suono delle carte calate sul tavolo.